L'araba fenice rompe il silenzio:
Nemesi di Giulio Risi, fra arte filosofia e cultura
Giulio Risi. Con lui ho scambiato diverse mail dopo aver ascoltato i suoi due primi cd: Giulio è un artista che incuriosisce, che non può lasciare indifferenti, non fosse altro che per la verve con la quale affronta ogni discorso d’ogni natura.
Ho spesso avuto la sensazione che le sue parole fossero come le sue note, riflessioni estetiche dai perimetri stilistici ben delineati, angolazioni armoniche interessanti, dense di pathos, coinvolgenti. Al di là di ogni scelta virtuosistica, si propone sempre in modo eclettico, agile nei cromatismi e nelle attente e flessuose improvvisazioni, suona un jazz intelligente, compone pentagrammi i cui “parametri discorsivi” percorrono con originalità molte nuances della musica del 900. Il piacere del suono si direbbe uno degli elementi centrali del suo sound. Probabilmente lo è. E per me è il piacere dell’ascolto, semplicemente.
Studia musica classica negli anni ottanta, dal 1993 lavora da professionista in ambito pop e rock, quattro anni dopo si trasferisce a Londra, nel 1999 esce il suo primo cd “Partido alto” che ottiene la candidatura al Premio “Perrier Jazz giovane talento dell’anno” tenuto allo storico jazz club “606” di Londra. Un ottimo album che non passa inosservato, una volta tanto, agli occhi della critica, i nostri tra i primi, immodestamente. Da quell’anno pur continuando a lavorare come session musician nel mondo della musica pop/rock, si esibisce come band leader del Giulio Risi jazz trio. Nel 2002, inizia a comporre colonne sonore per cinema e TV.
Nel 2006 esce il secondo album "Deep down where the heart beats no more," un viaggio virtuale intorno al mondo con undici brani che esplorano undici diverse nazioni , registrato con celebri musicisti fra Londra L’italia e l’Andalusia; un disco che ho recensito con trasporto e di cui in molti hanno argomentato, in Europa e negli Stati Uniti. Nel 2007 entra a far parte della band progressive rock Jadis, già prodotta dai Marrilion, con musicisti di fama mondiale (e, in camera caritatis, “anche di fame mondiale”, ironizza Giulio ).
Dal 2008 lavora fra Roma e Londra dove continua a far concerti con la band Jadis ( un nuovo tour europeo nel Marzo del 2010 ) e con il suo trio.
Un’ultima informazione prima dell’intervista: è in preparazione il suo primo lavoro “cantautorale” il cui titolo è "Nemesi di un'araba fenice" con diversi ospiti della musica e del teatro italiano.
Proposta l’intervista, Giulio premette:
“Come sai, non amo molto parlare di me, quindi ti offrirò delle digressioni. Forse non troverai la risposta alle tue domande, ma avrai una visione più generale del mio mondo.Una cosa che mi ha sempre divertito è la definizione che un'amica scrittrice, Bettina Gracias, ha dato del mio modo di parlare, paragonandolo a “un assolo jazz”. Dice “Giulio parte da un tema, poi devia in altre considerazioni che, dopo un po’, cominciano a esser parte del tema stesso. Spesso, essendo sempre generoso di citazioni, fa intervenire altri “musicisti” nel suo discorso-assolo”.
E allora il dialogo intriga ancor di più. Iniziamo con sincero intento di session.
È’ da un po’ di tempo che non ti si ascolta in CD…
Il nulla. Detesto irreggimentare le categorie musicali. C’è la vita; quella di alcuni di noi è talvolta attraversata da ciò che altrove si definisce “Jazz”. In quei casi chiamiamo il jazz “vita”. Sempre parole, che si sgambettano, sovrappongono, che si esautorano a vicenda (una considerazione che mi spinge verso il discorso sul linguaggio - sempre attuale e interessante - di Jacques Lacan).
Ed appunto riferendoci a Lacan; l’arte è un luogo di menzogna o è l’unico luogo in cui non può esservi menzogna?
L’arte è un gioco. Non uno scherzo. Un gioco. Lo ha spiegato Freud molto bene. E quando i bambini giocano, inventano delle storie, dei non-luoghi. Un adulto direbbe che un bambino che s'impalma imperatore sta mentendo; tutt'altro: il bambino in quel momento crede davvero d'essere un imperatore. Se proprio vogliamo e dobbiamo scorgere delle menzogne nell’arte, sono senz’ombra di dubbio le stesse che scorgeremmo in una seduta psicanalitica in cui il paziente cerca inconsciamente – se è onesto – o scientemente – se è disonesto - di sfuggire all’analista e quindi a se stesso. Arte, jazz, sono parole, se si è attraversati da qualcosa difficilmente se ne riesce a parlare. Non bisogna esser musicisti per parlare di musica; bisogna semmai esser senzienti, ergo “artistici”. Dico spesso che non c’è cosa più noiosa di un musicista che parla di musica, uno scrittore che parla di letteratura ecc. Qualcuno tempo fa li inceneriva dicendo “un artista che parla della propria arte è insopportabile come una madre che parla dei propri figli”. Il drammaturgo Leo de Berardinis, da poco scomparso nell’indifferenza generale, scrisse cose egregie sul jazz, sul concetto di assolo come espressione primaria della solitudine dell’artista. Inviterei inoltre un po’ tutti a meditare sul fatto che il migliore manuale di armonia è stato scritto da Arnold Schönberg: uno che l’armonia l’ha demolita.
Forse il musicista viennese l’ha demolita perché ne ha intuito in un certo senso la “morte”, egli intendeva sottolineare la necessità di un’ estetica diversa, non accademica, libera, poi ha finito col dare il via ad un’Accademia diversa, ma pur sempre improntata a codici espositivi molto catalogabili.
Schönberg aveva a mio avviso compreso in toto la storia della musica, come ha ampiamente dimostrato nel “Manuale di armonia“. Quando arrivi a comprendere interamente il significato di una cosa la archivi e procedi oltre. In quel momento storico l’oltre non esisteva, quindi se ne creò uno, non credo per offrire al mondo un’estetica diversa, ma per offrirla a se stesso e - di riflesso - al mondo. Quanto al fatto che i codici della pantonalità shonbergiana siano catalogabili, ciò è vero perché la dodecafonia è musica seriale; ma non ho detto che Shoenberg sia artefice di una musica non catalogabile, ho detto che ha sepolto il concetto di estetica armonica estistente all'epoca.
Esiste sempre un punto di contatto fra musica e società?
Nel mondo occidentale esiste una musica di società ma non una società permeata di musica. Sono stato nel 2008 in Etiopia per un concerto e, girando per i villaggi, ho ascoltato società permeate di musica. La stessa cosa l’ho notata in Brasile l’anno prima. Il primo punto di contatto fra musica e società sembra esser la fame. Il samba è una musica definita allegra, piena di vita. T’invito a osservare la vita di un sambeiro in Brasile: quasi tutti provengono da favelas, con storie familiari che rasentano i romanzi di Poe. Dietro un sorriso ostentato si cela una tragedia, e ci vuol poco a vederlo. Aveva ragione Hegel, non c'è nulla di più profondo di ciò che appare in superficie.
Condivido: molto spesso si ragiona per assiomi inesistenti, veri e propri luoghi comuni, trionfi di banalità che ora noi, mi sembra, almeno proviamo fortemente a evitare
Ergo, procedendo per assiomi comparati, un punto di contatto fra musica e società mi sembra poco immaginabile nello scenario para-culturale che alligna nel mondo occidentale.
Qual è la tua opinione circa il momento attuale del jazz?
Credo che il jazz abbia perso la connotazione dirompente che ne ha caratterizzato il periodo più glorioso. La rivolta del be bop contro l’humus razzista, la lotta per uscire dal ghetto. La musica ostentata come arma da guerra. Cinquant’anni fa si suonava in sottoscala maleodoranti, fra topi e risse a base di whiskey. Oggi per sentire un concerto jazz al Ronnie Scott’s di Londra o al Blue Note di New York (per citarne due fra centinaia), l’ascoltatore è costretto a pagare uno sproposito, se va bene per ascoltare un solo set. Il jazz è tornato a essere mero “swing” d’intrattenimento, la stessa musica che le orchestre suonavano in divisa per divertire i ricchi bianchi americani; è divenuto musica esclusiva dell’elite che sbeffeggiava, che si prefiggeva di contrastare, una musica borghese, che strizza l’occhio a finti salotti giacobini.
Un esempio rappresentativo della linea d’ombra che delimita l’arte e il business è il quartiere di Soho, a New York. Negli anni sessanta era un luogo malfamato, fulcro d’artisti d’ogni genere che occupavano gli appartamenti: gli stessi che furono messi alla porta un attimo dopo aver contribuito alla gentrificazione di quel quartiere, all’innalzamento dei prezzi delle case, che, trovandosi ora in una zona di “artisti” – di nuovo quella parola usata a sproposito – valevano il triplo. Il business si è sempre appropriato dell’arte, spesso con il consenso degli stessi artisti. Oggi il valore artistico di un quadro è dato dal suo prezzo, non da altro. Tornando alla musica, in buona sostanza la questione può esser liquidata in due parole: cinquant’anni fa i musicisti jazz suonavano per esprimere ribellione sociale e brandivano gli strumenti come armi, oggi, in Italia, un noto pianista jazz fa la pubblicità dell’acqua minerale.
Se jazz era ribellione ( e lo era, indubbiamente) oggi i parametri del discorso sono cambiati: chi non fa “cassetta” è out, non ha spazio e, dunque, il suo sound è di nicchia. Cosa fare per scuotere gli ascoltatori da questo torpore?
Limitare le nascite, certamente… fra un centinaio d’anni il problema sarà risolto (sorride)
Quali consideri i tuoi punti riferimento per le Blue notes?
Posso dirti i musicisti che ho amato, e non sono necessariamente dei punti di riferimento. Quando suoni non pensi ai referenti. A bocce ferme, rispondo che ho amato e amo molto Bill Evans. Anche in questo caso reputo importante l’uomo e non il pianista, non il musicista. Ritengo poi che ogni persona dotata di un minimo di sensibilità non possa prescindere dalla delicatezza rara di alcune ballads di Luca Flores. Più “tecnicamente” i miei studi, oltre Bill Evans che mi affascinava per le armonie e le scomposizioni ritmiche, si concentrarono sul fraseggio di Bud Powell e Oscar Peterson. Ebbi anche un periodo “Parker” durante il quale studiavo gli assoli dell’Omnibook a due mani (due ottave di distanza, all’unisono). Ergo una formazione basata sul be bop, sul pianismo esuberante di Michel Camilo, su quello del “tuttologo” Corea, mai perdendo di vista il punto da cui ero partito, Jimi Hendrix , Jerry Lee Lewis e i classici (fra tutti certamente Frédérich Chopin).
Proviamo ad immaginare il tuo futuro
Oddio… Prevedo stagioni di barbarie… (sorride). A Roma, al Vittoriale, in questi giorni c’è un’interessante mostra sulle mura megalitiche. Mentre la visitavo ho pensato che anche noi musicisti siamo dei monoliti, e non siamo uniti da calce o collanti vari, proprio come quelli delle mura in questione. Ognuno è un pezzo a sé, grande o piccolo che sia, e suo malgrado parte di un unico muro su cui altri lo pongono; siamo pietre miliari, parte dello stesso percorso ma destinate a non incontrarsi mai. Non bisogna cercare fratellanze, dobbiamo piuttosto far di noi stessi un’isola e consentire l’approdo solo a poche persone, gente che non vìoli la nostra sensibilità con la volgarità, col tedio. Ecco, questo è certamente il mio progetto per il futuro. Per ciò che concerne il resto, saprò di più quando sarò finalmente riuscito a interrogare la mia ghiandola pineale, sede dell’anima, secondo Cartesio.
Fabrizio Ciccarelli per "Jazzitalia"