© 2022 Giulio Risi / ERETICA Edizioni
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ISBN 9788833443386
PARTE PRIMA
Miracoli Urbani
Oracolo sull’Indumea, mi gridano da Seir
«Sentinella quanto resta della notte»?
La sentinella risponde
«Viene il mattino, poi ancora la notte».
Isaia 21,11-12
La luce s’introdusse nella stanza come una ladra. Penetrando fra le feritoie delle persiane raggiunse il suo viso di soppiatto. Bruno Sanna si coprì gli occhi con l’avambraccio, poi voltò la schiena alla finestra e ricominciò a sprofondare nel sonno. Quel giorno il risveglio sembrò durare secoli; prima lo sottrasse ai bardi dei sogni, poi lo cullò nel dormiveglia, infine radunò una realtà d’araldi che gli forzarono le palpebre vomitando una fiumana di paure.
Quando aprì finalmente gli occhi, Bruno si rese conto che non era più mattina da un pezzo. La bocca impastata, il calvario di ricordi al varco. S’alzò, s’avvicinò agli scuri e guardò fuori di straforo. Luci fredde in lontananza, scrosci di saracinesche verso il basso, Roma stava morendo come sempre, sotto un tramonto di bestia macellata.
Lavandosi il viso evitò come sempre di guardarsi allo specchio. Non aveva mai amato la sua immagine, giudicava la sua statura inadeguata; era alto un metro e settantacinque, non un gigante ma neanche un nano; barba rada, fronte larga e occhi mobilissimi dietro la montatura essenziale degli occhiali, nel bruno ingrigito dei capelli affondavano due suste simili alle zanne spalancate d’un tricheco.
Il click del mangianastri, My funny Valentine, la voce bruciata di Chet Baker, il consueto bolo di gesti quotidiani. Aprì l’armadio, scelse il verde d’una giacca sdrucita e l’indossò aggiustandosi il collo del maglione nero a dolce vita, ravviò il ciuffo di capelli che continuava a scivolargli sulla fronte (un sorta di tic che gli cadenzava le giornate). Uscì e assicurò la porta con due mandate di chiave. Cominciando a scendere le scale s’inoltrò nel consueto sciame di libere associazioni, un esercizio – era convinto – che la sua professione di psicanalista imponeva.
Rimuginava sulla somiglianza dell’alba e del tramonto, della fine così simile al principio; non una grande intuizione ma in fondo era sveglio da neanche un’ora. Un’altra rampa, quasi urtò la signora Rita senza notare la mano alzata in segno di saluto. L’inquilina del piano sottostante pareva ubiqua: Bruno l’incontrava dappertutto, neanche lo seguisse di nascosto. Era una professoressa in pensione funestata dal sacro fuoco della scrittura, s’incaponiva a scrivere romanzi epigonali che nessuno voleva pubblicarle; aveva dilapidato l’intera buonuscita per stamparseli da sola però non vendevano una copia. Soffriva di una carenza di vita che le riempiva i giorni di noia, passava le ore a rileggere i suoi testi stravedendo affinità scespiriane.
Bruno si rassegnò a quell’ennesima conversazione forzata. Continuò a seguire i suoi pensieri mentre la donna gli riferiva le sue ansie per i gatti che continuavano a sparire; ne aveva due, e li teneva blindati in casa, terrorizzata che il maniaco potesse sottrarglieli. «Dice che a Gina ha mandato le foto del gatto che le aveva rapito…» gli s’avvicinò a due centimetri dal viso sibilando «Foto della povera bestia torturata e sgozzata! Ma è possibile che in questo quartiere non si possa mai stare tranquilli?»
Lo fissava seria come un infarto, la sua angoscia sollecitava un cenno, quasi il suo interlocutore fosse in grado di dirimere la cosa pronunciando una semplice risposta, una specie di deus ex machina planato dal nulla per ripianare il caos del palazzo. L’analista ascoltava senza sentire, la donna gli lanciò uno sguardo in tralice e lo strattonò con decisione, poi azzardò la madre di tutte le domande: «Ma non è che questi signori Wang, questi che hanno aperto il ristorante cinese a via Falconieri…»
Bruno infine si smosse «Andiamo, signora, non penserà mica che cucinino i gatti».
«E perché no? In Cina mangiano cani, gatti e Dio sa cos’altro! Senta, bisogna convocare un’assemblea, dobbiamo mettere in sicurezza il portone, le finestre e…»
L’altro sfoderò il suo miglior sorriso paternalistico. «Certamente, chieda a Ermete, gli ho firmato una delega e mi rappresenta nelle riunioni condominiali – spalancò gli occhi – ciò che decide lui, decido io». Si divincolò e s’avviò verso l’androne rubricando l’incontro con piglio da telegrafista: donna anziana/logorroica/paura del silenzio/i logorroici l’associano alla morte.
Quando aprì il portone stava ancora biascicando quel concetto, e se fine e principio fossero la stessa cosa? Il sole crescente o calante, va bene, ma la luce è la stessa, e così i colori, l’altezza in cielo in un dato momento. Nascita e morte si somigliano, il sole sorge e cala in due punti diversi ma anche noi non nasciamo e moriamo nello stesso punto.
S’affannava a scovare un concetto originale con cui cominciare la serata ma il vuoto che gli ronzava in testa continuava a elargirgli cumuli di banalità. In realtà quell’affanno mentale era dovuto a una sequela d’episodi che da un po’ catturavano la sua attenzione: continuava a trovare lacci di contenzione dappertutto: nella cassetta della posta, all’interno dell’auto, finanche nella borsa da lavoro. L’appuntato dei carabinieri aveva rifiutato la denuncia allargando le braccia a mo’ di Papa: «Che dovrei fare? Ti metto una pattuglia sotto casa?» Con aria da Sherlock Holmes inquadrato in un sorriso di sfottò gli aveva suggerito che il colpevole era forse uno dei suoi pazienti, magari qualcuno non più in terapia. La sua sentenza era stata lapidaria: «Dottò, nun lo sai? Ai matti è mejo daje foco».
Bruno aprì il portone sul caos multicolore di via Donna Olimpia, strada principe del quartiere Monteverde, gemma incastonata nel cuore di Roma. Cominciò a camminare senza una meta precisa; quando si sentiva frastornato faceva sempre una breve passeggiata. Dopo la consueta rassegna di vetrine decise che il giro doveva concludersi al bar Mascagni, in quel posto stazionavano alcuni vecchi amici, gente cresciuta come lui nella palazzine popolari Ater. Oreste era il proprietario del bar e serviva delle brioche al cioccolato di cui Bruno era ghiotto (ne mangiava senza ingrassare un grammo [anzi, da un po’ aveva preso addirittura a dimagrire)]; era convinto che quei dolci fossero speciali, Oreste cominciava a prepararli alle cinque di mattina con Yelena, la sua compagna ucraina; quest’ultima asseriva d’esser custode di una ricetta di cui solo lei e altri due pasticcieri tartari erano a conoscenza; Bruno non sapeva se fosse vero ma preferiva crederle e adagiarsi sul sogno d’essere uno dei pochi privilegiati (assieme a un manipolo d’appassionati a Mariupol) cui era concesso di gustare il segreto al cacao di quella santa donna.
Camminava lentamente verso il bar, Bruno Sanna, ignorando che era alle porte del declino verso il punto più basso della sua esistenza.